L’esposizione è costruita su un semplice itinerario temporale che percorre quel decennio fatidico (breve, appena un sorso di tempo consumato con ingordigia tra il 1880 e il 1890, ma anche lungo, quanto una vita intera) che fa sbocciare in Vincent (o prendere il volo, per usare l’immagine a lui cara dell’uccellino in gabbia) una pienezza artistica, che sconta il prezzo salato di tutta la sua umanità sofferente.
La mostra ci conduce ad entrare in quella ricerca senza tregua, in quell’interrogarsi e domandare che costituisce per alcuni proprio l’eccedenza, ciò che differenzia gli uomini dagli altri esseri viventi. Ma la mia lettura della mostra è andata disperdendosi per sentieri inusuali. E forse perché come docenti viviamo, con i nostri allievi, uno stressante finale di partita, pieno di burocratici adempimenti, di onerosi “documenti” che non hanno nulla della gioiosa luminosità del maggio, di forzate verifiche che non si sa bene che cosa verifichino, che la mia riflessione su Van Gogh prende pieghe e ardite discese, in senso didattico.
Mentre guardavo queste opere e leggevo nelle gigantografie le amare e penetranti riflessioni dell’artista, mi risultava sempre più evidente che tutta la vicenda della formazione di Van Gogh costituiva uno schiaffo alla scuola, una abissale lontananza dal fare scuola nel senso istituzionale del concetto.
La cosa è partita dal tema dei tessitori. Quegli spazi angusti e bui, opprimenti e tetri, dove vivono queste parvenze umane, incatenate ai telai. L’artista entra prepotentemente dentro la verità delle cose. E’ questo un Van Gogh fotografico, non tanto nel senso che le sue immagini abbiano una qualche parvenza di immagine tecnica, bensì nel senso che il pittore interpreta la fotografia nella sua stessa essenza – nel suo status ontologico, direbbe Barthes – cioè in quella capacità di andare dentro la vita, nel momento stesso del suo accadere.
Sono immagini penetranti e feroci nella loro capacità di comunicare. Ma se noi consideriamo queste immagini con gli occhi dei contemporanei, almeno dal punto di vista del senso comune del suo tempo, ecco che improvvisamente queste stesse immagini scivolano nell’insignificanza, nella bruttura, nel disvalore, nell’antiestetico (come sono oggi i resti, le carcasse delle TV dismesse, fotografate da Lewis Baltz).
E dunque, continuando in questo accesso didattico alla mostra, se queste immagini di Van Gogh dovessero essere valutate, che risultati otterrebbero mai? Rischierebbero una sonora bocciatura evidentemente! Ma questo è appena un dettaglio, un curioso gioco della storia. Se consideriamo con maggiore attenzione è proprio il senso della formazione che si mette in gioco in questa vicenda vangoghiana. In dieci anni Van Gogh, con pochi maestri e tanta passione, intraprende un percorso fatto di curiosità insaziabili, di domande che si rincorrono, di letture di ogni genere ma soprattutto di quel guardare il mondo con occhio lucido, libero e fanciullo, cioè pulito da pregiudizi e stereotipi. La formazione di Van Gogh è passione, ricerca, dinamica, curiosità, zaino in spalla e tanto camminare, cioè esattamente tutto quello che la scuola non è o ha perduto. E non voglio pensare a quel che sarebbe accaduto se il ciclo pittorico sulla tessitura avesse dovuto subire la stretta burocratica della PONificazione…
Non è il caso, dunque, di farci interrogare in queste nostre rigidità dall’insegnamento alla valutazione, dove forse la traduzione numerica e le necessità di adottare standard burocratici assorbe e vanifica tutta la forza problematica di un conoscere che è processo, un andare generoso di entusiasmi e passioni e non soltanto meccanizzazione?
Sergio Giorato