Sono diventato insegnante per caso ma ho imparato ad amare questo mestiere nobile e affascinante di plasmare coscienze e crescere uomini che ho avuto il privilegio di interpretare.
In breve ecco la mia storia. Sono nato negli ultimi anni del medioevo. Ho avuto la fortuna di vivere qualche anno in un’altra galassia, perché gli anni Cinquanta sono più di là che di qua, come direbbe Hobsbawn. Il cesso stava sopra il letamaio, la notte filtrava tra le travi del tetto e ai bambini si inumidivano le labbra con il vino; il cane, come il Melampo di Pinocchio, si trascinava tutto il giorno lungo la catena, abbaiando rabbioso a ogni movimento e rincorrendo ogni gallina o anitra, per non parlare dei gatti, fino a rischiare di strozzarsi. Della mia infanzia non mi resta che qualche immagine, qualche petalo di carta sgualcito, che rigiro tra le mani cercando di inseguire un ricordo (mentre per i miei nipoti forse non c’è giorno della loro breve vita che non abbia la sua immagine). A tre anni ho rischiato di morire annegato; mi ha salvato un uomo che veniva col carro; ho perso conoscenza e ricordo il sapore amaro del primo caffè della mia vita. All’epoca i bambini avevano un’autonomia di movimento oggi impensabile e per miracolo sono stato risparmiato, dunque, dal finire tra i numeri della mortalità infantile, che aveva un tasso molto elevato, nel regime antico della morte.
Ma veniamo alle cose più importanti. Prima della scuola mi sono dedicato allo studio dei luoghi dove sono nato, perché cresciamo dalle radici e non possiamo essere senza radici (anche se le radici talvolta bisogna avere il coraggio di reciderle, così ho concluso il mio ragionamento didattico sulle vicende dei conflitti etnici nei Balcani). Il primo libro che ho scritto è forse il più bello. S’intitola A fulgure et tempestate… Aspetti di vita e mentalità di un villaggio dei Colli Euganei. Monterosso tra ‘700 e ‘900, che ha ricevuto il premio “Brunacci” di Monselice, edizione 1999 per le opere dedicate alla storia del territorio padovano. Secondo me, il valore di questo libro è dato dal capitolo – fenomenologia del vivere quotidiano ha per titolo – in cui mi cimento nella difficile via delle essenze e provo a rappresentare i termini della differenza dello “stare nel mondo” , per cogliere quella diversità radicale (quella distanza galattica, di cui dicevo) che oggi ci separa dal passato e che alle giovani generazioni impedisce di comprendere l’orizzonte di quelle che ci hanno preceduto. Il mio modello era un importante lavoro di uno storico francese (Emanuel Le Roy Ladurie) dedicato al villaggio occitano di Montaillou al tempo dell’Inquisizione e come in quel libro volevo far venir fuori la gente, l’umanità sofferente dei perdenti, di quelli dei quali la storia mai si sarebbe occupata; volevo dedicarmi a ricostruire i loro pensieri, i loro desideri, le loro speranze e le paure. Era un gesto d’amore a tutti coloro che avevano popolato la mia infanzia, che oggi ritrovo ancora in qualche immagine sbiadita, in qualche loculo sconnesso del cimitero.
Prima della scuola sono stato Conservatore del Museo di Arte contemporanea “Dino Formaggio”del Comune di Teolo. Ho lavorato a lungo con Dino, che mi è stato quasi padre, alla costruzione di una “follia”, non un insensato miraggio ma una benefica, coraggiosa, erasmiana follia, come l’idea di realizzare un museo di arte contemporanea nel bel mezzo dei Colli Euganei, un territorio appena uscito da una storia di arretratezza e povertà. Devo molto a Formaggio: l’esempio di Dino mi ha tirato fuori dalla foresta intricata dell’insignificanza in cui mi ero nascosto.
Sono stato anche Responsabile dei Servizi Sociali e Culturali del Comune di Teolo ma lì la relazione professionale ed umana si è arenata in una palude di differenze profonde che hanno scavato un solco e mi hanno/ci hanno impedito di continuare. E così, tornando dalle ferie un 30 di agosto, mi sono trovato nella buca delle lettere (perché la posta era ancora cartacea, a proposito di medioevo) un telegramma (ancora si usavano) che mi invitava a prendere servizio come insegnante. E così, nel giro di qualche ora, mi sono deciso per il salto nel buio e il mio tempo, le mie abitudini, i miei orizzonti, sono stati travolti e devastati dall’istante, direbbe Kierkegaard.
Ma prima di girare questa pagina devo dire che non c’è stata solo lontananza e incomprensione in quella vicenda, che comunque mi ha consentito di vivere una stagione felice della mia vita. E’ accaduto quando mi sono inventato una storia (d’amore) con la fotografia e sono entrato in contatto con il più geniale, stravagante e funambolico manager della fotografia italiana, quel Lanfranco Colombo che aveva investito i proventi dell’industria familiare dell’acciaio in quell’avventura, per quell’amante costosa, come lui diceva, che era la fotografia, dando vita alla Galleria “Il Diaframma” di Milano. In quelle stanzette, dove Lanfranco fumava il suo sigaro e consumava centinaia di telefonate con piglio aristocratico, si trovavano e convergevano con i loro portfolio i fotografi di ogni esperienza e di ogni estrazione, e intellettuali e giornalisti e organizzatori. Così ho conosciuto fotografi straordinari come Gianni Berengo Gardin, autore di inchieste di impegno civile come quella sui manicomi ma anche dell’immaginario del territorio italiano realizzato per il Touring Club; donne dal piglio consapevole come Letizia Battaglia e Giuliana Traverso e fotografi emergenti come Francesco Paolo Cito che si era travestito da guerrigliero afgano per fotografare il paese invaso dai sovietici, e fotografi ribelli e antagonisti, come Roberto Salbitani. Fotografi di fama internazionale come Gabriele Basilico o locali, ma non meno validi, come Giuseppe Bruno, artigiano umile e silenzioso dai bianco nero straordinari, o l’intraprendente Fulvio Roiter che realizzò forse uno dei libri fotografici più straordinari (Venise à fleur d’eau nel 1954) o il felliniano e surreale Mario Lasanlandra, con il quale scambiai amicizia e per il quale ho avuto l’onore di scrivere il testo per uno dei più bei libri fotografici sui Colli Euganei.
In quegli anni ho realizzato mostre dei più importanti fotografi italiani, da Berengo appunto, al poeta marchigiano dal segno graffiante come Mario Giacomelli, ma anche artisti del grande teatro internazionale come il costruttivista russo Aleksandr Michajlovič Rodčenko e il pioniere, della fotografia e del volo aerostatico, Gaspard-Félix Tournachon detto Nadar. Tra i tanti incontri uno conservo con affetto: quello con il sudamericano Alberto Korda, quello della famosa foto del Che Guevara, che divenne icona del ’68 e che lui – mi raccontava – aveva regalato a Giangiacomo Feltrinelli, in visita a Cuba. I diritti di quella foto l’avrebbero fatto ricco sfondato ma sapete come sono i sudamericani: mi casa es tu casa… E tra le immagini che ho avuto la fortuna di esporre sono rimasto profondamente impressionato dalla celebre mattanza dei tonni ad Acireale, ripresa nel 1907 da un grande pittore e fotografo italiano, Francesco Paolo Michetti.
Ma non solo mostre. Ho realizzato anche incontri, seminari e convegni come quello dedicato al ruolo degli enti pubblici nei confronti della fotografia o come le conferenze in cui geografi (Alberto Zunica) storici (Sante Bortolami) e filosofi (Dino Formaggio) si confrontarono sulla questione della fotografia, con la partecipazione anche dei titolari delle grandi imprese fotografiche, come la Mission photographique Transmanche (che si proponeva di descrivere le trasformazioni intervenute nel territorio in seguito alla realizzazione del tunnel sotto la Manica).
Insomma una stagione felice ma tarlata dal fondamentale errore (sostanzialmente mio, dovuto forse agli entusiasmi della giovinezza) di essere un’attività sovradimensionata rispetto all’entità culturale e quantitativa del comune. Così mi sono perso e sono finito schiacciato nelle maglie delle piccole invidie, della ricerca dei facili consensi, e il tutto si è arenato sulle spiagge della politica miope e parca, quella della navigazione a vista, dei discorsi qualunque.
Infine, dunque, girata con amarezza quella pagina, mi è capitato di diventare docente di filosofia e storia presso il Liceo scientifico “E. Fermi” di Padova (dopo qualche breve passaggio al Marchesi, al Curiel e al Cornaro). Non era stata una scelta libera e consapevole, dunque, ma piano piano ho trovato me stesso in questo mestiere e ad un certo punto è scattata l’entusiasmante follia della passione e non ho avuto il tempo di stancarmi. Al Fermi – pur non essendo mai diventato un “fermiano” – ho avuto l’opportunità di fare anche il vicepreside (a causa di un sorriso dal quale la Preside ha colto in me una disposizione dell’animo che le andava a genio) e raccogliendo una ricchezza di relazioni, accompagnate sempre dallo sguardo divertito che viene dalla storia della mia gente, una storia in cui l’ironia, benevola o dissacrante, era l’unica forma di dissenso possibile contro l’ingiustizia e i soprusi del potere.
Concludo riepilogando altre cose di cui mi sono occupato e che hanno dato luogo, ciascuna, a viaggi, a nuovi incontri e nuovi paesaggi. Ma prima un libro ancora, tra gli altri, voglio ricordare. Ha per titolo Pane, ciliegie e vino bianco. Saggi di storia e cultura del vino nei Monti Euganei (Biblos 2000). Ha segnato l’esordio della mia passione per il cibo avvenuta per un incontro casuale (sempre il caso nella mia vita) con un documento d’archivio che raccontava di questa colazione di pane ciliegie e vino bianco offerta al vescovo in visita nel santuario di Monteortone. Così i comportamenti a tavola sono diventati per me un tema intrigante, sospinto anche dalla meditazione di un breve saggio di Roland Barthes che diceva come il cibo sia una sorta di interruttore posto tra il corpo e lo spirito e, non ultimo, dalla lettura dei saggi straordinari sulla storia dell’alimentazione di Piero Camporesi.
Le altre pubblicazioni le riepilogo (anche se ciascuna si è portata via un pezzo importante del mio tempo, della mia curiosità e della mia passione): La memoria e l’oblio. Ritratti di fotografi padovani, 1992; Cento anni di solidarietà e cooperazione. La Cassa Rurale di Costozza e Tramonte Praglia 1896-1996, 1996; nel 2001 il Parco Regionale dei Colli Euganei mi ha incaricato per I Monti Azzurri. Atlante dei Colli Euganei; e dall’Associazione professionale dei fotografi padovani ho ricevuto l’incarico per la mostra La memoria di carta. Momenti di vita padovana dagli archivi degli artigiani fotografi dal 1960 ad oggi, scrivendo i testi per il catalogo.
Nel 2004 è uscito il Viaggio bibliografico intorno ai Colli Euganei, una ricerca su tutto il materiale pubblicato dedicato al territorio euganeo, comprendente più di cinquemila titoli, edito dalla Regione del Veneto in versione cartacea e digitale.
Nel 2005 ho collaborato al volume pubblicato dalla Cierre edizioni – I Colli Euganei, a cura di Francesco Selmin – con contributi sulla storia dell’alimentazione e sulla rappresentazione fotografica del territorio collinare.
Nel 2008 ho pubblicato “La pazzia del ballo” che esamina le vicende collegate al divertimento, alla percezione del corpo come si esprime nelle pagine del settimanale diocesano “La Difesa del Popolo”, in occasione del centenario del medesimo periodico. Un libro, un libriccino in realtà che si legge in mezzo pomeriggio, ma curioso e ricco di ironia.
Altre pubblicazioni più recenti sono L’Arte il senso di una vita che fungeva da catalogo per la mostra allestita per il centenario della nascita del filosofo Dino Formaggio (2014). Le ultime cose a cui mi sono dedicato, alternando all’insegnamento, sono Il Novecento a Teolo. Viaggio fotografico nel “secolo breve” (2017) e La Via Montanara. Il romanzo di una strada dalle vicende all’immaginario ( 2018).
Ora sto lavorando a un libro su Teolo nel quale mi sono riproposto di far emergere dall’oblio quel mondo di valori quali la consuetudine alla fatica, al sacrificio, alla sobrietà, a quelle cose come la lentezza del tempo, al parlare guardandosi in faccia, del mangiare fatto da se, delle sapienze incomprese conservate nelle mani che appartengono a una identità, a un mondo che rischiamo di perdere per sempre. Poiché la nostra vita è immersa e sommersa, quasi soffocata, in un eterno presente senza storia e senza profondità, dove tutto è dovuto, dove tutto si spiega, dove tutto è facile. Ma al di là di questa trasparenza presunta c’è tutto un universo che non si riesce a dire e del quale si può parlare solo nel silenzio dell’intimità.
23 settembre 2021